31 gennaio 2011

I vaccini in medicina del lavoro: esenzioni e consenso

I vaccini in medicina del lavoro: esenzioni e consenso

È possibile imporre ai lavoratori la vaccinazione necessaria a garantire la sicurezza sul lavoro in caso di rischio biologico? A cura di Maurizio Del Nevo.

Un ruolo chiave ed insostituibile nella sicurezza sul lavoro, relativamente al rischio biologico (Titolo X del D.Lgs 81/2008), è svolto dai vaccini specifici. Il fatto che i vaccini necessari a garantire la sicurezza sul lavoro abbiano indubbia natura di «trattamento sanitario» contemplato dall’art.32 della Costituzione comporta, però, inevitabili problematiche giuridiche riguardo la possibilità di imporre tali vaccinazioni ai lavoratori valutati come a rischio biologico.

Vaccini e obblighi generali di tutela ex art.2087 c.c.
L’art.2087 c.c. stabilisce che “l’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Per quanto una vaccinazione sia un atto tipicamente medico, in ambito di sicurezza del lavoro un vaccino contro un rischio biologico specifico (ma anche generico aggravato) del lavoro non può che essere interpretato a tutti gli effetti, alla luce del D.Lgs 81/2008 ma anche e soprattutto dell’art.2087 del c.c., come una delle misure di protezione necessarie per la tutela della salute dei lavoratori che il datore di lavoro é tenuto ad adottare. Questo comporta alcune conseguenze alla luce di due principi giuridici sottesi da questo articolo del codice civile:
1) Principio della massima sicurezza tecnicamente fattibile
2) Principio di sussidiarietà in materia antinfortunistica

Principio di massima sicurezza tecnicamente fattibile
“In materia di sicurezza sul lavoro il datore di lavoro è tenuto ad uniformarsi alla migliore scienza ed esperienza del momento storico in quel specifico settore”. In caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale, una volta provato il nesso causale con il lavoro, è compito del datore di lavoro dimostrare di avere fatto tutto il possibile per prevenire l’evento: ad esempio, nel caso del tetano, al di là delle ordinarie o speciali precauzioni contro i tagli che sono necessari nelle varie lavorazioni, il vaccino antitetanico rappresenta attualmente misura tecnica insostituibile per garantire la massima sicurezza tecnicamente fattibile nella protezione dei lavoratori, per cui, ove disponibili, il datore di lavoro è sicuramente obbligato ad adottare tali misure.

Principio di sussidiarietà in materia antinfortunistica
“L’art.2087 c.c. ha carattere generale e sussidiario d’integrazione della specifica normativa antinfortunistica”; infatti, “il dovere di sicurezza si realizza o attraverso l’attuazione di misure specifiche imposte tassativamente dalla legge, o, in mancanza, con l’adozione dei mezzi idonei a prevenire ed evitare sinistri, assunti con i sussidi dei dati di comune esperienza, prudenza, diligenza, prevedibilità, in relazione all’attività svolta”. L’art.2087 c.c. impone pertanto al datore di lavoro un obbligo più ampio rispetto al semplice rispetto della normativa antinfortunistica: le leggi della normativa antinfortunistica – tra cui il D.Lgs 81/2008 – rappresentano, infatti, solo «misure minime» di sicurezza o «norme di puro pericolo», cioè semplicemente situazioni già valutate preventivamente come necessarie dal legislatore e che, in base al principio della tassatività penale, non sono soggette ad ulteriore discrezionalità e valutazione da parte del destinatario del precetto; ma, qualora l’esperienza e la particolarità del lavoro dovessero suggerire ulteriori misure non previste dalla legge, il datore di lavoro è tenuto comunque ad adottare tali ulteriori presidi. Il datore di lavoro, pertanto, ha l’obbligo di adottare i vaccini imposti dalla legge e, in mancanza di disposizioni legislative, di adottare in via sussidiaria i vaccini disponibili in base alla «prevedibilità del rischio».

Le vaccinazioni da adottare nel campo della medicina del lavoro, pertanto, sono:
1) vaccinazioni obbligatorie quali sono quella antitetanica per le categorie di lavoratori indicati
nell’art. 1 della legge 5 marzo 1963, n. 292, Legge 20 marzo 1968 n. 419, D.M. 16 settembre 1975, DPR 1301 del 7.9.65, DM 22.3.75 o quella antitubercolare (L.1088/70) in ambito sanitario.
2) vaccinazioni da valutare, assieme al medico competente, in base alla tipologia di rischio biologico (art.279 comma 2a D.Lgs 81/2008): tra le più comuni ricordiamo le anti HBV, antiHAV, antitifica ma, tenendo conto di come gli obblighi del datore di lavoro non vengano meno anche nel caso di trasferte di lavoro all’estero, l’elenco diventa davvero ampio.

Ovviamente, le vaccinazioni si pongono in posizione «sussidiaria» rispetto alle misure anticontagio alla fonte (cabine aspirate, contenitori a prova di aghi) e individuali (guanti, visiere paraschizzi, etc.), nel senso che di fronte ad un rischio di contagio, è necessario sempre prima privilegiare le misure che impediscono il contatto con il microrganismo e, solo una volta accertata l’impossibilità tecnica di evitare con assoluta certezza tale contatto, imporre vaccini specifici.

Gli obblighi di imposizione del datore di lavoro ed il problema del consenso
Come noto in dottrina, ogni atto medico trova i suoi presupposti di legittimità in un consenso libero e consapevole da parte del paziente, consenso che trova le sue fonti giuridiche negli artt.13 e 32 della Costituzione e nell’art.5 del codice civile. In materia di sicurezza sul lavoro, però, è altrettanto noto come “le misure di sicurezza vanno attuate dal datore di lavoro anche contro la volontà del lavoratore” (Cass. pen. sez. IV, 5.2.1991, n.1170).
Un lavoratore esposto a rischio biologico che lavori senza essere preventivamente vaccinato, rappresenta per il datore di lavoro una situazione di pericolo permanente e «conoscibile» che fa automaticamente sorgere un corrispondente e tassativo obbligo per l’imprenditore di attivarsi e ridurre prontamente al minimo tecnicamente fattibile il rischio. Pertanto, in tal caso, così come per le altre misure di sicurezza sul lavoro, il datore di lavoro ha l’obbligo di richiamare anche disciplinarmente il lavoratore che rifiutasse tale vaccinazione. Diversamente, infatti, qualora si concedesse al lavoratore la arbitraria possibilità di rifiutare la vaccinazione, l’art.2087 del c.c. si trasformerebbe in una illegittima fonte di responsabilità oggettiva per il datore di lavoro: se il datore di lavoro è tenuto per legge ad adottare tutte le misure “necessarie” per la tutela dei dipendenti, è ovvio come egli debba potere fare ciò senza ingerenze o limitazioni.

Ogni rifiuto di sottoporsi al vaccino da parte di un lavoratore vanificherebbe tutta la struttura legislativa della tutela della sicurezza del lavoro subordinato ponendo nel nulla la posizione di “garanzia” posta a carico del datore di lavoro, posizione che trova la sua legittimità nella possibilità da parte dell’imprenditore di esercitare i poteri economico, decisionale e sanzionatorio senza alcuna ingerenza o limitazione (secondo i principi giuridici di «effettività» e di «esigibilità della condotta»). Infatti, se da un lato la natura di trattamento sanitario del vaccino, riconducibile alle previsioni dell’art.32 della Costituzione, crea rilevanti problematiche giuridiche in ipotesi di potenziali effetti collaterali (vedi oltre), dall’altro rende il rifiuto del lavoratore ed ogni forma di liberatoria da parte di questi prive di ogni valore giuridico, in quanto:
1. L’art.41 della Costituzione garantisce all’imprenditore libertà di impresa (primo comma) a condizione che questa non si svolga contro la utilità e la sicurezza sociale (secondo comma).
La salute, rappresentando uno dei «diritti fondamentali» protetti della Costituzione (art.3218), rappresenta tipico esempio di «diritto indisponibile»: come tutti i diritti indisponibili non è pertanto suscettibile di essere scambiata o ceduta, anche parzialmente, mediante patti o accordi anche impliciti.
2. Allo scopo di bilanciare i diritti tutelati dagli articoli 41 e 32 della Costituzione, il legislatore ha formulato l’art.2087 c.c. che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure che dovessero rendersi necessarie per la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore e che rende il datore di lavoro suscettibile di responsabilità penale e civile nei confronti del lavoratore.
3. Nel momento in cui il datore di lavoro concedesse al lavoratore una esenzione dal sottoporsi alla vaccinazione, verrebbe sotteso necessariamente una sorta di patto in cui il lavoratore, in cambio dell’esenzione di sottoporsi alla vaccinazione, «pattuirebbe» una rinuncia al richiedere eventuali risarcimenti al datore di lavoro, non più in grado di adottare tutte le misure di sicurezza richiestigli dalla legge.
4. Ma questo tipo patto rappresenterebbe un chiaro esempio di «cessione» parziale da parte del lavoratore del proprio diritto alla salute tutelato dall’art.32 della Costituzione e quindi, proprio per la «natura indisponibile» di questo diritto fondamentale, non sarebbe ammissibile.
5. Oltretutto, un accordo di questo tipo sarebbe per il datore di lavoro privo di ogni valore liberatorio in termini di responsabilità penale, in quanto le norme della sicurezza su lavoro, tra le quali rientra l’obbligo di sottoporsi alle vaccinazioni, appartenendo al diritto pubblico, non possono essere derogate da accordi privati, espliciti o impliciti che siano.
6. Si consideri, infine come l’obbligo di vaccinazioni configuri un reato perseguibile d’ufficio e non a querela, per cui ogni patto in materia non influenzerebbe in alcun modo l’iter giudiziario dell’eventuale illecito.
7. Su un piano più pratico, inoltre, ogni eventuale accordo tra datore di lavoro e lavoratore potrebbe costituire agevole possibilità di sistematico aggiramento della legge, in quanto potrebbe consentire al datore di lavoro, di ottenere dai propri dipendenti documenti utili a non applicare questa ed altre norme antinfortunistiche.
8. Tutto quanto sopra, infine, diventa particolarmente rilevante, alla luce dell’autorevole insegnamento dei Supremi giudici, “… quando si tenga conto dello stato di soggezione del lavoratore dipendente nei confronti del datore di lavoro e del conseguente potere di suggestione di quest’ultimo; e quando si tratti di tutelare diritti per loro natura indisponibili e costituzionalmente garantiti, quali il diritto alla salute” (estratto da Cass. Penale sez. VI, sentenza n. 1473 del 4.2.99). Tale vizio del consenso del lavoratore subordinato viene chiarito anche nella recente Cassazione penale, Sez. III, n. 1728 del 21 gennaio 2005, in materia di consenso espresso dal lavoratore all’effettuazione di visite da parte del medico aziendale durante il periodo di malattia (viste vietate dall’art.5 dello Statuto dei lavoratori), ove si legge come «a) disponibili sono soltanto i diritti individuali privi di rilevanza pubblica; b) indisponibili sono quei diritti che soddisfano, oltre all’interesse individuale dei titolare, anche interessi superindividuali riconosciuti dall’ordinamento; e) è viziato, e quindi privo di efficacia scriminante, il consenso prestato da un soggetto passivo che si trovi in una condizione di inferiorità nei confronti dell’agente ».

Quindi il carattere indisponibile del diritto alla salute, la posizione di garanzia del datore di lavoro, la natura di reati perseguibili d’ufficio e di norme di rilevanza pubblica delle norme di sicurezza sul lavoro rendono già viziato in origine e privo di pregio ogni forma di «consenso» da parte del lavoratore sia in senso affermativo che negativo: fondamentalmente, in tutta la sicurezza sul lavoro, non si può che giungere alla conclusione su come la volontà del lavoratore subordinato diventi irrilevante, almeno all’interno dell’interpretazione sinallagmatica del contratto di lavoro.
Il problema della riserva di legge stabilito dall’art.32 della Costituzione (“nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”) in materia di trattamenti sanitari appare superato in forza dell’art.279 del D.Lgs 81/2008 e negli obblighi generali di sicurezza imposti dall’art.2087 c.c.
Nel caso poi di lavoratori della sanità o comunque addetti alla assistenza o al soccorso di terzi va ricordata la ormai celebre sentenza della Corte Costituzionale 218/94 che ha ritenuto legittimi, anzi doverosi, gli accertamenti di sieropositività da HIV sui lavoratori impegnati in mansioni che possono comportare rischio di contagio per i terzi.

Vaccini ed effetti collaterali
Il problema dell’esenzione, ovviamente, diventa più complesso quando si affronta il problema degli effetti collaterali che un vaccino può comportare e che rappresentano la quasi totalità delle motivazioni contenute nei certificati di pretesa esenzione.
Non esistono sentenze della Corte Costituzionale o Corte di Cassazione che abbiano mai affrontato direttamente il problema della esenzione da vaccinazioni nel campo della sicurezza sul lavoro, ma qualche preziosa indicazione può essere ricavata indirettamente ove la Corte Costituzionale è stata chiamata a esprimersi più genericamente in materia di vaccinazioni obbligatorie.

Come si legge in motivazione nella sentenza della Corte Costituzionale n.258/94, “su questa linea si è ulteriormente precisato che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost.:
a) se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacchè è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale (cfr.sent. 1990 n. 307);
b) se vi sia “la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze, che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili”;
c) se nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio - ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica - sia prevista comunque la corresponsione di una “equa indennità” in favore del danneggiato (cfr.sent. 307 cit. e v. ora l. 210/1992). E ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria, la quale “trova applicazione tutte le volte che le concrete forme di attuazione della legge impositiva del trattamento o di esecuzione materiale di esso non siano accompagnate dalle cautele o condotte secondo le modalità che lo stato delle conoscenze scientifiche e l’arte prescrivono in relazione alla sua natura” (sulla base dei titoli soggettivi di imputazione e con gli effetti risarcitori pieni previsti dall’art. 2043 c.c.: sent. n. 307/1990 cit.”).
Il punto b) appare soddisfatto dalle vaccinazioni usualmente utilizzate in medicina del lavoro in quanto il rapporto tra benefici clinici ed effetti collaterali appare ormai vantaggiosissimo, mentre il problema della “equa indennità” (punto c) è coperta dalla legge 210/1992 per quello che riguarda le menomazioni permanenti mentre, relativamente alle inabilità temporanee, non dovrebbe incontrare, a logica, ostacoli in sede di tutela INAIL.

Più complesso, invece, appare il punto a): la riflessione della Corte, nel valutare i profili di costituzionalità delle vaccinazioni obbligatorie, sottolinea la necessità di una valutazione “in necessario bilanciamento con la considerazione anche del parallelo profilo che concerne la salvaguardia del valore (compresente come detto nel precetto costituzionale evocato) della salute collettiva, alla cui tutela - oltre che, (non va dimenticato) a tutela della salute dell’individuo stesso - sono finalizzate le prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie”.
L’obbligo di contemperare il diritto alla salute della collettività con quello dell’individuo – entrambi costituzionalmente garantiti - nel caso di vaccinazioni obbligatorie sul lavoro, porta necessariamente a distinguere due situazioni diverse: nel caso, ad esempio, dell’epatite B, potendo il soggetto infettatosi professionalmente costituire pericolo anche per gli altri (vedi Corte Costituzionale n.218/94), il precetto tocca finalità di tutela individuale ma anche collettiva, mentre nel caso, ad esempio, della vaccinazione antitetanica, trattandosi di malattia in cui non è possibile la trasmissione interumana, la obbligatorietà della vaccinazione si incentra esclusivamente sulla tutela del solo lavoratore.

I vaccini per malattie contagiose
Nel caso di «certificazione di esenzione» al vaccino del lavoratore impiegato a rischio di epatite B appaiono applicabili fondamentalmente tutte i principi messi in luce dalla Corte Costituzionale in materia di vaccinazioni obbligatorie in generale; indipendentemente, infatti, dalle modalità professionali o no del contagio, un malato di epatite B può costituire pericolo anche per la collettività a causa della sua potenziale contagiosità.
Con riferimento al rischio di effetti collaterali, in Cassazione 5877/2004 viene affrontato il problema del rifiuto a vaccinazioni obbligatorie – tra cui anche l’anti HBV - da parte dei genitori di un minore, rifiuto basato sulla motivazione che la cugina del bimbo era già stata colpita da encefalopatia a causa delle stesse vaccinazioni. In questa sentenza si ha così modo di affrontare il problema della rilevanza, a fini della esenzione da vaccinazioni obbligatorie, dell’art.54 c.p. (c.d. «stato di necessità»: “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona …”).
La Cassazione ha occasione di chiarire che, premesso “che le vaccinazioni obbligatorie possano essere fonte di pericoli per le persone che ad esse sono sottoposte, è circostanza che può darsi per acquisita”, … “lo stato di necessità postula che il pericolo sia presente quando il soggetto agisce e sia imminente il danno che ne possa derivare, non potendosi configurare l’esimente in questione in relazione ad un danno futuro, tanto più quando, come nel caso delle vaccinazioni obbligatorie, il pericolo di gravi complicanze risulti del tutto trascurabile”. Secondo la Suprema Corte, cioè, per invocare lo stato di necessità è necessaria la percezione di un pericolo attuale ed imminente e non solo ipotetico e potenziale.
Di contro, le motivazioni ricorrenti che si ha modo di leggere nei vari certificati di esenzione a vaccini sul lavoro fanno quasi sempre riferimento a mal definibili reazioni avverse, comunque sempre reversibili e mai gravi. La stragrande maggioranza dei rivendicati motivi di esenzione non appare, pertanto, integrare uno stato di necessità tale da potere giustificare un legittimo rifiuto, rappresentando proprio il caso di “pericolo futuro ed ipotetico” a cui fa riferimento la Corte.

Da notare come rappresenti valido stato di necessità anche “l’erroneo convincimento della sussistenza di una causa di giustificazione, il cui onere probatorio grava su colui che invochi l’errore (Cass., 20 novembre 1985, n. 4710, cit.; Cass., 25 maggio 1993, n. 5866, cit.; Cass., 12 maggio 1999, n. 4710)” ma “che ciò che rileva non è lo stato d’animo dell’agente, ma la presenza di fatti concreti che siano comunque tali da giustificare l’erronea persuasione di trovarsi in una situazione di necessità”. Su questo punto, ovviamente, diventa fondamentale e necessaria l’opera del medico competente che deve cercare di spiegare al lavoratore come molte delle sue reticenze siano basate spesso su motivazioni sbagliate, quali il pensare che i vaccini siano emoderivati o che la semplice e generica atopia possa costituire motivo di probabile shock anafilattico.

A riguardo dei sempre possibili e non sempre prevedibili effetti collaterali più generali, in Corte Costituzionale 258/94 si ha modo di leggere come “invero, proprio per la necessità – già sottolineata - di realizzare un corretto bilanciamento tra la tutela della salute del singolo e la concorrente tutela della salute collettiva, entrambe costituzionalmente garantite, si renderebbe necessario porre in essere una complessa e articolata normativa di carattere tecnico - a livello primario attesa la riserva relativa di legge, ed eventualmente a livello secondario integrativo - che, alla luce delle conoscenze scientifiche acquisite, individuasse con la maggiore precisione possibile le complicanze potenzialmente derivabili dalla vaccinazione, e determinasse se e quali strumenti diagnostici idonei a prevederne la concreta verificabilità fossero praticabili su un piano di effettiva fattibilità. Ed al tempo stesso - per evitare che la prescrizione indiscriminata e generalizzata di tutti gli accertamenti preventivi possibili, per tutte le complicanze ipotizzabili e nei confronti di tutte le persone da assoggettare a tutte le vaccinazioni oggi obbligatorie rendesse di fatto praticamente impossibile o estremamente complicata e difficoltosa la concreta realizzabilità dei corrispondenti trattamenti sanitari - si dovrebbero fissare standards di fattibilità che nella discrezionale valutazione del legislatore potrebbero dover tenere anche conto del rapporto tra costi e benefici, eventualmente stabilendo criteri selettivi in ordine alla utilità - apprezzata anche in termini statistici - di eseguire gli accertamenti in questione.”

Dunque, pur consapevole della possibilità di reazioni avverse significative, la Consulta rimarca come l’auspicabile obbligo del legislatore di individuare una normativa di carattere tecnico che, alla luce delle conoscenze scientifiche acquisite, individui con la maggiore precisione possibile le complicanze potenzialmente derivabili dalla vaccinazione e quindi i soggetti a rischio, non possa comportare la ricerca della «assoluta assenza di effetti collaterali» con il risultato di trasformare il tutto in una paralisi del sistema delle vaccinazioni obbligatorie che, comunque, la storia della medicina promuove senza dubbi.
Superato in tal modo il problema dei comuni effetti collaterali, nel caso di vaccinazioni verso malattie a possibile contagio interumano, l’esigenza di tutela della salute collettiva appare pertanto costituire elemento sufficiente a legittimare su un piano costituzionale l’imposizione di vaccinazioni anche nel campo della sicurezza sul lavoro, “giacchè è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale (cfr.sent. 1990 n. 307)".

Meno certo, invece, appare stabilire se una reazione allergica specifica di tipo grave, cioè magari anche con pregressi e documentati episodi di shock anafilattico specifico, possa integrare uno stato di necessità. In questo caso, infatti, la reazione al vaccino può essere rappresentata da una reazione rapida e addirittura fatale (se non trattata tempestivamente) tale da costituire rischio immediato e persino maggiore della mancata vaccinazione per la salute del lavoratore, per cui, effettivamente, in questa situazione, anche qualora non fosse invocabile lo stato di necessità nel rifiuto, sarebbe probabilmente lo stesso medico a ritenere insomministrabile il vaccino.

Per concludere, valutando in termini medici la sussistenza di una eventuale condizione di esenzione dalle vaccinazioni sul lavoro, e con riferimento specifico alle attuali caratteristiche tecniche dei vaccini utilizzati in medicina del lavoro (HAV, HBV, antitifica, antitetanica), l’esenzione permanente dalle vaccinazioni potrebbe essere ipotizzata principalmente nel caso di documentata allergia (di tipo 1 Gell-Coombs) specifica verso il vaccino in questione con prevedibile reazioni di tipo shock anafilattico, se già precedentemente documentata, in quanto in questo caso il pericolo non avrebbe carattere di ipoteticità ma rappresenterebbe pericolo per la salute di gravità e prevedibilità paragonabile alla malattia da cui il vaccino intende proteggere il lavoratore.

Ma in questa ipotesi di rischio di shock anafilattico, un certificato medico avrebbe valore legale di «esenzione» dalla vaccinazione per il lavoratore verso il rischio biologico professionale specifico?
In altri termini, il lavoratore andrebbe considerato ancora idoneo a quella mansione lavorativa e mantenuto nel suo posto di lavoro?
A differenza del caso delle vaccinazioni obbligatorie per la popolazione generale, infatti, nel caso delle vaccinazioni obbligatorie sul lavoro il vero quesito, a ben vedere, è sostanzialmente diverso: qui non si tratta di valutare la legittimità dell’imposizione di una vaccinazione, bensì di «valutare se un lavoratore a rischio possa essere mantenuto in quella specifica mansione anche se non vaccinato».

Riprendendo le riflessioni di Corte Costituzionale n.218/94 (“in tal caso le attività che, in ragione dello stato di salute di chi le svolge, rischiano di mettere in pericolo la salute dei terzi, possono essere espletate solo da chi si sottoponga agli accertamenti necessari per escludere la presenza di quelle malattie infettive o contagiose, che siano tali da porre in pericolo la salute dei destinatari delle attività stesse…e ha poi previsto, senza che possa essere adottato altro provvedimento nei confronti dell’interessato, la esclusione di chi abbia rifiutato di sottoporsi agli accertamenti dai servizi che presentano rischio per i terzi …”) e tenuto conto del fatto che tutte le malattie infettive presentano una fase in cui il soggetto può essere contagioso pur se ancora temporaneamente sieronegativo, la risposta appare perentoriamente negativa per quelle attività (soprattutto di soccorso o mediche) in cui vi può essere anche pericolo per i terzi. Nelle attività che, invece, non presentano queste caratteristiche di pericolosità intrinseca verso terzi, rimane indubbio il fatto che lavoratore che dovesse infettarsi rappresenterebbe in ogni caso un possibile vettore verso terzi nella vita quotidiana, per cui ci si troverebbe ancora giocoforza a dovere contemperare il diritto alla salute della collettività con quello del lavoratore alla conservazione di quello specifico lavoro: il primo diritto è ovviamente costituzionalmente garantito (art.32), mentre il diritto al lavoro (art.4 e 36 della Costituzione) è tutelato solo in termini generali e non con riferimento al mantenimento di quello specifico lavoro. Anche in questo caso, pertanto, riteniamo che non si possa che inevitabilmente concludere per la «non idoneità» del lavoratore alla mansione che espone al rischio biologico, anche nel caso di documentate reazioni a tipo shock anafilattico al vaccino.

I vaccini per malattie non a contagio interumano
Nel caso di lavoratore esposto a rischio di tetano, come visto sopra, mancando il rischio per la collettività, la legittimazione di una imposizione deve trovare elementi di giustificazione diversi dal contemperamento delle esigenze di tutela della salute collettiva e di quella individuale, “giacchè è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale (cfr.sent. 1990 n. 307)”.
In Corte Costituzionale n.262/2004 proprio tale mancanza di pericolo per la salute della collettività relativamente al tetano viene sollevata nel caso di minore sottratto dai genitori alla vaccinazione obbligatoria ex art.1c L.292/63. La Consulta non ritiene tale argomento sufficientemente valido a stabilire la incostituzionalità dell’obbligo di vaccinazione antitetanica in quanto “al giudice non può essere estranea la considerazione del rischio derivante allo stesso minore dall’omissione della vaccinazione posto che, nel caso del minore, non è in gioco la sua autodeterminazione, ma il potere-dovere dei genitori di adottare le misure e le condotte idonee a evitare pregiudizi o concreti pericoli alla salute dello stesso minore, non potendosi ammettere una totale libertà dei genitori di effettuare anche scelte che potrebbero essere gravemente pregiudizievoli al figlio (cfr. sentenza n.132 del 1992)”. Queste indicazioni della Consulta non appaiono, però, rispondere del tutto al problema del lavoratore che rifiuta la vaccinazione antitetanica sul lavoro in quanto nel caso del lavoratore, a differenza delle scelte fatte dai genitori sulla salute del minore, entra in gioco proprio il diritto alla «autodeterminazione» nelle scelte verso la «propria» salute richiamata esplicitamente dalla stessa sentenza della Corte. Nel caso del lavoratore che rifiuta il vaccino, cioè, ci si trova di fronte ad un cittadino italiano che prende decisioni sulla propria salute (e non di un terzo) senza che queste abbiano oltretutto conseguenze sulla salute collettiva.

Quali possono essere allora, nel caso di lavoratore con controindicazioni alla vaccinazione antitetanica, quelle fonti legali idonee “a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo” in materia della propria salute?
Innanzitutto potrebbe risultare di qualche interesse una vecchia riflessione della Corte di Cassazione in materia di rifiuto di sottoporsi alle visite obbligatorie con il medico di fabbrica ex DPR 303/56:
condannando il datore di lavoro per non avere licenziato e avere mantenuto nel lavoro a rischio due lavoratrici che, esposte professionalmente a vapori di piombo, avevano rifiutato di essere sottoposte a visita con il medico competente, la Cassazione giustificava la illegittimità di ogni esenzione con il fatto che “il sistema dei controlli periodici sul personale a contatto con sostanze tossiche non è posto nel solo interesse del singolo, bensì in quello superiore della collettività, essendo noto il peso degli invalidi sulla economia nazionale”.

Ovviamente, una visita medica comporta problematiche giuridiche minori relativamente ai trattamenti sanitari contemplati dall’art.32 della Costituzione, ma in questa sentenza la Cassazione ha comunque modo di affermare come le misure in materia di sicurezza sul lavoro – a cui appartengono sia le visite preventive con il medico competente sia i vaccini specifici - non si limitino alla semplice tutela del lavoratore, ma tutelino anche un interesse della collettività inteso quale onere previdenziale che incomberebbe sulla società nel curare il lavoratore ammalatosi sul lavoro. Da notare, sempre in questa sentenza, come il rifiuto verso le visite giustificasse il licenziamento immediato (per giusta causa). Appare però improbabile che questo diritto della collettività a salvaguardare i propri equilibri finanziari possa avere lo stesso valore impositivo verso il singolo che è riconosciuto sicuramente al diritto della collettività di tutelare la propria salute (costituzionalmente garantito) in ipotesi di prevenzione di malattie a contagiosità interumana.

Anche nel caso di serie controindicazioni al vaccino antitetanico, però, va sottolineato come il vero quesito non sia rappresentato tanto dalla legittimità dell’imporre la vaccinazione, quanto dalla possibilità di continuare ad adibire un lavoratore non vaccinato contro il tetano ad una mansione a rischio di infezione, tenendo conto di come l’ipotesi del lavoratore che si assumesse la responsabilità di lavorare comunque non vaccinato riproporrebbe le già illustrate problematiche di indisponibilità del diritto alla salute e vizio del consenso, nonchè la possibilità di aggiramenti della legge sulla base di certificati medici attestanti anche semplici “disturbi” a sottoporsi alle vaccinazioni, in forza del potere di suggestione del datore di lavoro verso il lavoratore subordinato.

Il problema costituzionale, come già visto sopra a riguardo del vaccino anti HBV, è rappresentato dal contemperamento del diritto alla salute (art.32) e del diritto al lavoro (art.4). Non va comunque dimenticato come il secondo comma dell’art.41 della Costituzione vieti tassativamente alla iniziativa imprenditoriale, e quindi al lavoro subordinato, di svolgersi contro i principi di tutela della salute garantiti dall’art.32 della Costituzione. Se quindi neppure un diritto costituzionalmente garantito quale quello della libertà economica (art.41 primo comma) appare potere prevalere sul diritto alla salute, appare ancora più problematico individuare nel diritto al lavoro tutelato dall’articolo 4 della Costituzione una fonte costituzionale tale da potere prevalere sul diritto «indisponibile» alla salute tutelato dall’art.32, in quanto il diritto al lavoro garantito dall’art.4 Cost. appare logicamente rappresentare un diritto al lavoro «in generale» e non un diritto a quello «specifico» lavoro.
Appare pertanto doversi concludere che, nel caso di lavoratore non vaccinato per il tetano a causa di potenziali reazioni allergiche gravi, se da un lato tale situazione può rappresentare indubbia controindicazione medica alla vaccinazione, la indisponibilità del diritto alla salute porti alla necessaria conclusione che il lavoratore deve essere considerato «non idoneo» alla mansione a rischio biologico con tutte le conseguenze già illustrate dalle sezioni unite della Corte di Cassazione n.7755/98 dato che …resta in ogni caso vietata la permanenza del lavoratore in mansioni pregiudizievoli al suo stato di salute” (Cass. civ. sez. lavoro 03.07.1997 n.5961).

Il valore legale delle certificazioni di esenzione
Per quanto sopra è pertanto bene che ogni medico tenga bene a mente come le certificazioni di
esenzione dai vaccini sul lavoro non possano in alcun modo rappresentare fonti legali in grado di esentare il lavoratore da tale norma di sicurezza e possano comportare conseguenze anche gravi sul piano della conservazione del posto di lavoro; se appare, pertanto, doveroso per ogni medico la segnalazione di pregresse situazioni cliniche che possono rendere prevedibilmente pericolosa la vaccinazione, rappresenta invece esempio di «cattiva pratica medica» certificare con superficialità casi di lievi e banali effetti collaterali come motivi di categorica esenzione dai vaccini, motivi di esenzione che appaiono potere essere riservati principalmente alle sole documentate reazioni anafilattiche di tipo 1 (Gell-Coombs).
Nelle situazioni di immunodeficienza congenita o acquisita tutti i vaccini “vivi” sono controindicati e, nel caso di trattamenti immunosoppressori, tali vaccini possono essere somministrati solo almeno tre mesi dopo la fine della terapia. Gli altri vaccini (ricombinanti, con virus uccisi e anatossine), invece, possono essere somministrati anche se non vi sono certezze sulla effettiva risposta dell’individuo.

Maurizio Del Nevo
Istituto di Formazione alla Prevenzione
ISFoP Milano


Fonte: MedicoCompetente.
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Caratteristiche e idoneità di formazione/informazione dei lavoratori

La Cassazione si è espressa questa volta sull’obbligo di formazione ed informazione dei lavoratori da parte del datore di lavoro e sulle caratteristiche che tali istituti devono assumere perché siano ritenuti idonei ed efficaci.

A cura di G.Porreca.

Quello preso in esame in questa circostanza dalla Corte di Cassazione penale è il rischio esplosione che deve essere oggetto di idonea e dettagliata informazione dei lavoratori. In particolare dalla suprema Corte non sono state ritenute sufficienti le misure prese dal datore di lavoro e consistite nell’aver messo a disposizione di un lavoratore, rimasto vittima di un infortunio sul lavoro, le schede di sicurezza relative alla sostanza che stava utilizzando e che durante la sua attività ha portato alle conseguenze lesive nei suoi confronti e nell’avere inoltre organizzato un incontro preliminare dello stesso lavoratore con il fornitore della sostanza pericolosa nell’ambito del quale sono state illustrate le modalità d’uso del prodotto ma non sono state messe in evidenza le caratteristiche della sua pericolosità ed i rischi derivanti dal suo utilizzo. Aggravante e determinate inoltre è stata considerata dalla Corte di Cassazione la circostanza che nel caso preso in esame tale rischio di esplosione non era stato neanche oggetto della valutazione dei rischi aziendali e non era stato inserito nel documento di valutazione dei rischi elaborato dal datore di lavoro.

L’evento infortunistico e l’iter giudiziario
L’infortunio è accaduto in una azienda mentre un lavoratore era impegnato nel lavaggio di una cisterna di un autoarticolato all'interno della quale vi erano residui di resina da poco scaricati dall'autista in un’altra azienda. Lo stesso lavoratore, nel tentativo di sciogliere i grumi di resina, ha gettato all’interno della cisterna dell’acqua calda, (condotta questa contraria ai protocolli aziendali che prevedevano l'uso di acqua fredda) ma non essendoci riuscito ha pertanto spruzzato dal boccaporto superiore della cisterna un solvente e quindi, aperta la valvola di scarico della cisterna, ha constatato che i grumi di resina si stavano liquefacendo. Lo stesso è risalito poi sulla cisterna per effettuare una seconda erogazione di solvente ed a tal punto è stato investito da una violenta deflagrazione che ne ha determinato l'immediato decesso.

A seguito dell’evento il Tribunale ha condannato il legale rappresentante dell’azienda per il delitto di omicidio colposo in danno dell'operaio per violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro. Lo stesso Tribunale, nel rammentare che perché si determini un'esplosione è necessaria la concomitante presenza di un combustibile, dell’ossigeno e di un innesco, ha sostenuto che l’esplosione sarebbe stata evitata se all'interno della cisterna non vi fosse stato ossigeno (cosa possibile se si fosse utilizzata una tecnica di "inertizzazione con azoto") e se fosse inoltre stato utilizzato un prodotto, presente sul mercato, idoneo a raffreddare le parti gassose. Il Tribunale ha quindi individuata la responsabilità dell'imputato per aver omesso l’utilizzo di tali accorgimenti da impiegare nei lavaggi di cisterne contenenti resine ed inoltre per non avere impedito al lavoratore infortunato di utilizzare nel lavaggio acqua calda, circostanza questa addebitabile allo stesso imputato il quale non aveva fornito al suo operaio un'adeguata formazione ed informazione sui rischi specifici dell'utilizzo del solvente, indicato dalla stessa ditta produttrice come prodotto a rischio di esplosione, e lo ha condannato alla pena di mesi 9 di reclusione, pena sospesa, nonché al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili ed alla liquidazione in loro favore di una provvisionale immediatamente esecutiva.

A seguito di un ricorso fatto dall’imputato la Corte di Appello ha successivamente confermata la sentenza del Tribunale anche se ha ridotto la pena. La stessa Corte ha ribadito che gravante sull'imputato è stato l'addebito di colpa per avere omesso una adeguata formazione ed informazione dell’infortunato circa il rischio di esplosione connesso con l'utilizzo del solvente ed ha osservato che tale dovere di informazione non si doveva ritenere soddisfatto dalle istruzioni fornite dal produttore della sostanza tenuto conto che le avvertenze del pericolo erano state del tutto generiche e che non erano stati imposti divieti o prescrizioni. Ininfluente è stata considerata, altresì, la partecipazione da parte della vittima a corsi e riunioni con i delegati del produttore del solvente, considerato che tali incontri non avevano portato alla elaborazione di alcuna regola cautelare antinfortunistica.

Il ricorso in Cassazione e le decisioni della suprema Corte
Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso il difensore dell'imputato rigettando la contestazione di non aver formato ed informato adeguatamente il lavoratore circa i rischi di esplosione. Secondo l’imputato, infatti, la " scheda sicurezza" del prodotto riportava il rischio di infiammabilità ed esplosione ed in virtù di ciò lo stesso aveva provveduto a prendere gli opportuni provvedimenti dando l’istruzione di effettuare dopo l’immissione del solvente il lavaggio della cisterna per almeno 10 minuti con acqua fredda per evitare il contatto fra il solvente e l’acqua calda. L’infortunato, inoltre, ha sostenuto l’imputato, aveva partecipato alla messa a punto della procedura di lavorazione ed a riunioni organizzative con il produttore di quel solvente e pertanto era pienamente consapevole dei rischi del lavaggio se utilizzava lo stesso e pertanto l'obbligo di formazione ed informazione era da ritenersi pienamente assolto.

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla suprema Corte la quale ha affermato che “il debito di sicurezza nei confronti del lavoratore a cui è tenuto il datore, prevede tra l'altro l'obbligo di informare i dipendenti dei rischi per la sicurezza e la salute in relazione all'attività svolta nell'impresa (Decreto Legislativo n. 626 del 1994, articolo 21, vigente all'epoca dei fatti) e di adeguata formazione in materia di sicurezza (articolo 22)”. Secondo la Sez. IV, inoltre, per assolvere agli obblighi della formazione ed informazione non è sufficiente la "ragnatela" delle disposizioni date con una pluralità di documenti messi a disposizione del lavoratore. “Perché sia assolto l'obbligo di sicurezza previsto nelle citate norme” prosegue la Sez. IV, “è necessario che il lavoratore venga informato dei rischi specifici dell'utilizzo del prodotto. Tale specificità non deve arrestarsi alla esplicitazione di una mero divieto (es. utilizzare acqua fredda e non calda), ma deve indicare le conseguenze per la sicurezza e la salute che determinate modalità di lavoro possono comportare”. Anche la suprema Corte ha ribadito che nel caso in esame non è risultata essere stata data alcuna informazione ai lavoratori addetti al lavaggio delle autocisterne e che utilizzavano il solvente infiammabile né è risultato che gli stessi fossero stati destinatari di una specifica formazione in tema di sicurezza oltre al fatto che nel documento di valutazione dei rischi non era stato preso in considerazione il rischio specifico.

“È ragionevole pertanto”, ha concluso la suprema Corte ”la deduzione che ne ha tratto il giudice di merito: se il rischio non era stato valutato e preso in considerazione dall'azienda, era logico ritenere che i lavoratori sul punto non avessero ricevuto alcuna specifica informazione e formazione”.
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Riduzione tasso medio di tariffa INAIL: proroga

Riduzione tasso medio di tariffa INAIL: proroga

Proroga al 28 febbraio per la presentazione della richiesta di riduzione del tasso medio di tariffa INAIL da parte delle aziende che hanno effettuato interventi per il miglioramento delle condizioni di sicurezza e di igiene nei luoghi di lavoro.

Com'è noto, le aziende che hanno effettuato interventi per il miglioramento delle condizioni di sicurezza e di igiene nei luoghi di lavoro, in aggiunta a quelli minimi previsti dalla normativa in materia, possono presentare, entro il 31 gennaio 2011, istanza di riduzione del tasso medio di tariffa (oscillazione del tasso medio per prevenzione dopo i primi due anni di attività ex art. 24 delle Modalità di Applicazione delle Tariffe).

In relazione alla prossima emanazione del decreto ministeriale che riscrive il testo dell'articolo 24 MAT come da delibera PRES-C.S. n. 79 del 21 aprile 2010, e tenuto conto delle sollecitazioni pervenute sia da tutte le parti sociali nonché dell'ordine del giorno promulgato dal CIV il 19 gennaio u.s., la data di presentazione delle istanze ex art. 24 MAT è prorogata sia per le istanze cartacee che per quelle che pervengono per via telematica, al 28 febbraio in coerenza con le emanande disposizioni.
Quanto precede servirà anche al fine di garantire una migliore gestione della fase transitoria.

L'Istituto (l'INAIL, ndr) si adopererà in ogni modo per far sì che da subito vengano applicate le nuove percentuali precostituendo per le Strutture Territoriali un applicativo che dal centro provvederà a sistemare tutte le domande alla data di entrata in vigore del nuovo decreto già accolte.

Le Strutture in indirizzo fino a nuova comunicazione da parte della scrivente continueranno ad evadere le istanze secondo la prassi consolidata.

Allo stato attuale restano valide le disposizioni in vigore, in base alle quali la riduzione di tasso è riconosciuta in misura fissa pari al:
5% per le aziende di rilevanti dimensioni (numero di lavoratori anno superiore a 500); 10 % per le altre aziende (numero di lavoratori anno inferiore a 500).

L'oscillazione del tasso
Il modello OT24
Le istruzioni INAIL del 22 dicembre 2010
Le istruzioni INAIL del 24 gennaio 2011

Fonte: INAIL
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